RITI ANTICHI

La Danza dell’Argia


È l’estate, la stagione delle messi, il periodo dell’anno in cui compare la temibile Argia. Non c’è un orario preferito, pomeriggio, notte, alba, mezzodì, poco importa, lei è lì: il suo addome globoso ricoperto di macchie rosse vivaci si insinua nei campi, nelle depressioni del terreno, fra fastelli e fasci un di rami assestati, pronta a colpire. Una piccola creatura capace di risvegliare paure ancestrali. 

Secondo il mito è la sola sopravvissuta allo sterminio imposto da Dio degli animali velenosi presenti anticamente nell’isola di Sardegna. Spesso veniva confusa in alcuni paesi con un altro insetto i cui colori, rosso sanguigno e nero come l’orgoglio, invitano sì al pericolo, ma risultano del tutto innocui. Aggettivo non adatto alla nostra argia: il suo morso non provoca dolore istantaneo, ma i suoi effetti hanno un elevato scatenamento tossico e possono manifestarsi già nei primi minuti successivi al morso: sudorazione, nausea, conati, deliri, febbre, cefalea, fortissimi crampi addominali e nei casi più gravi perdita di sensi e morte se non curata nei tempi e modi voluti dalla tradizione.  

Le credenze popolari parlano di una subitanea trasformazione nella vittima del morso: il malcapitato non è più la stessa persona, subisce una vera e propria possessione. L’unica speranza di salvezza era riuscire a scoprire le caratteristiche dell’argia colpevole per costringerla a rivelarsi. Tutto il paese si mobilitava in questa ricerca, ma solo una era chiamata a colloquiare direttamente con l’argia, di solito la persona con la quale il posseduto nutriva più confidenza. L’argia, tessitrice di storie, capace di rompere il filo della vita, decideva se salvare il pizzicato o capovolgerlo dal mondo reale e condurlo dall’altra parte.   

Per scongiurare questa possibile fine si danzava, cantava, ci si apriva a lamenti sussurrati, per identificare il tipo di argia responsabile del morso e scoprire le sue preferenze. Sarà “piccìnna, coubada o fìuda?” , ovvero, giovane nubile, sposa o vedova? Ad ognuna di queste condizioni corrispondeva una sintomatologia sofferenziale, ad ogni sofferenza manifesta, uno specifico intervento. L’emissione della diagnosi era resa possibile da diversi atteggiamenti esplorativi messi in campo per stanare l’argia e interpretare volta per volta il suo possibile gradimento. 

L’argiato è dispotico ed esigente, detta le proprie regole. Tutti sanno che chi lo possiede vuole esser soddisfatto. È posto al centro di uno spiazzo, meglio se adibito ad aia, per evocarne il buon auspicio. L’aia era, infatti, per tradizione il luogo purificatore che esalta la vita, poiché si lavorano al suo interno i prodotti della terra. L’uomo pizzicato viene accerchiato da 7 giovani non maritate, 7 spose e 7 vedove, in altri paesi erano in 3 e dovevano chiamarsi Maria (le tre Marie, forse una trasmutazione forzata cristiana delle tre Moire, della triplice rappresentazione delle fasi lunari da cui dipendeva il destino degli uomini). Tutte selettivamente convocate in un gruppo di ballo che ruota attorno all’argiato a ritmo alternato, ad indicare la ciclicità della vita. 

Si ergono canti e suoni in un vortice curativo d’incontro, a volte frenetico, a volte rassicurante, atto a dare sollievo, identificare ed eliminare le sostanze tossiche e ripristinare lo stato di benessere dell’uomo pizzicato. C’è chi intravede nella figura di queste tre condizioni espresse dall’argia rappresentazioni delle fasi di luna crescente, luna piena e luna calante; tracce e rimandi, quindi, a dispositivi cultuali arcaici che regolavano i rapporti tra la parte umana della società e quella “divina” nello spazio immanente di questo mondo. Questo relitto di qualche antica divinità, trasformata poi in essere demoniaco, ha personalità, carattere, temperamento e non  è collocata in uno spazio metafisico, trascendente e distante, ma vive a strettissimo contatto con gli individui. Ogni rimando a un culto arcaico appare subordinato all’organizzazione della vita e della società nella dimensione dell’immanenza.

 

Chi prova oggigiorno a trasformare questa danza in ragione, è perduto. Non sono i gesti grotteschi di questo antico rituale di guarigione a nascondere chissà che valenza e mistero, ma ciò che cattura e richiama è l’invisibile che li avvolge. È come un racconto: non devi crederci, puoi solo entrarci dentro e lasciarti trasportare, come la musica, come la vita; è un incedere verso l’ignoto; non ci si può mai preparare del tutto al suo incontro, ma può rivelarsi il nostro principale alleato.  

Le genti di questa antica terra di Sardegna hanno avuto da sempre molteplici canali d’incontro con questo mondo non ordinario. Le janas, antiche sacerdotesse e custodi dei mondi sottili, ci aprivano le porte, le ninnie, i brebus (le parole magiche sarde) servivano per renderlo più mansueto e familiare. Certi canti e suoni venivano usati per indurre guarigioni fisiche e spirituali.      

La nostra tradizione ci lascia volutamente perle di riflessione: i più importanti processi, movimenti, meccanismi si basano sulla pura semplicità di alcune leggi fondamentali. Basta seguirne il richiamo per il discernimento. Immagina di venire trasportato e accedere a un punto di vista fuori dal mondo ordinario; guardare le cose da quel punto di vista inconsueto ti aiuta a togliere il velo delle verità altrui. L’uomo pensa di essere quello che a lui è noto, ma in realtà è in gran parte ciò che non sa di essere. Permettiti di scoprire e provare a tirar fuori quello che dentro. Tu sei la strada che decidi di percorrere. Non temerne la danza. Entra dentro e genera altro racconto.  

Oggigiorno non abbiamo più gli stessi occhi di allora con i quali percepire tutti i suoni e colori di questa antica danza liberatoria dell’Argia. Le sue sequenze, le mimiche, le posture, i suoi gesti rituali, grondano di un vissuto mitico-religioso a cui tutti i partecipanti di allora attingevano sapienti. 

Abbiamo perso quel contatto, ma niente ci vieta di trovarne di altri.  

È ancora ben visibile la valenza magica di questo antico rituale di guarigione, volta a non lasciare solo il malato nel suo momento di massimo disagio. Cambiano le movenze, cambia l’intonazione ma ciò che non varia è il ruolo positivo del gruppo e l’esigenza comune e condivisa di ribaltare il momento di crisi e di precarietà esistenziale, individuale e collettiva, nella forza dirompente e liberatoria della danza e del canto. 

Questo è l’aspetto che più mi colpisce. Non do troppa importanza ai gesti rituali, supero le movenze grottesche, cerco l’incontro con la mia gnosi che mi parla: mi racconta che più una persona si sentirà accolta e non giudicata, più sarà predisposta a parlare di sé; mi sussurra che certe espressioni comunicano l’intento di aiutare e supportare, non di umiliare; mi trasporta in un tempo non convenzionale in cui mondi diversi si sfiorano, intenti a far combaciare le proprie mappe concettuali. Vedo una conversazione ritmata circolare: tanto più sarà costruttiva quanto più le persone coinvolte nella danza si apriranno tra loro e saranno pronte ad assumere temporaneamente il punto di vista e l’emozione dell’altro.  

Musca juches?” mi direbbe ridendo un caro amico nuorese, intendendo “sei allucinata? sei fuori di te?” – detto forse derivante dall’uso che alcuni facevano dell’Amanita muscaria, un funghetto dai noti effetti allucinogeni che provocava certi voli sciamanici da guinness.             

Eh, no, nessuna trance divinatoria, nessun effetto sorpresa “muscau“.  

Sarò semplicemente punta anche io dalla frenesia dell’argia… 

Manuela Sanna

FILOS, Racconti di Viaggio di Manuela Sanna. Tutti i diritti riservati © 

Riferimenti bibliografici: 

  • C. Gallini, La ballerina variopinta 
  • F. Alziator, Il folklore sardo 
  • Ernesto De Martino, 1976, La terra del rimorso, Il Saggiatore 
  • Nando Cossu, Medicina Popolare in Sardegna, Carlo Delfino Editore 
  • Nino Sole, Sardegna ancestrale. La traccia e il sapore del sapere antico 
  • G.M. Lisai, Misteri e storie insolite della Sardegna 
  • Walter J.Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola  
  • Gian Matteo Corrias, Prima della fede 

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