ANTICA TRADIZIONE

La Notte delle Anime


Nella notte tra la fine di ottobre e l’esordio di novembre il portale fra il mondo dei vivi e quello dei morti si affievolisce talmente da permettere il passaggio di anime erranti e desiderose di pace, di anime curiose e benevole che vagano nei luoghi un tempo cari, desiderose di odori perduti. È questa l’occasione, nascosta e tramandata con saggezza, di guardarsi dentro, sanare le ferite del passato e guardare la vita che verrà.  

È questo il momento dell’anno di accogliere gli antenati e raccontare le loro gesta; di riunirsi attorno al fuoco cerimoniale e aprirsi al racconto, ai “contus de foghile”; di accendere la via per le anime vaganti e alimentare la speranza con le luci e fiamme delle candele. È usanza diffusa in molte parti dell’isola lasciare apparecchiata la tavola tutta la notte in modo che i defunti possano fare ritorno presso i luoghi cari fino al sorgere del sole e cibarsi dei profumi di pietanze e ricordi di vita vissuta. Nella tavola non dovevano mai comparire posate, specialmente coltelli e forchette, in quanto la superstizione popolare portava a credere che alcuni defunti potessero essere particolarmente irascibili a causa di qualche lascito non risolto, “chi non s’ischi mai! “(=che non si sa mai!). Sovente venivano lasciati sulle sedie e sugli angoli della tavola, oggetti che utilizzavano nel quotidiano: una pipa, degli occhiali, uno scialle, il set da ricamo, il libro preferito. Una candela accesa per ognuna di queste anime di passaggio apriva la via per la loro ascesa.  

IL RITORNO DEGLI ANTENATI

Fin da tempi immemori sull’isola è viva la credenza secondo la quale la morte non consiste pienamente nella fine della vita, ma di quella così come la si conosce. La morte su “Ichnusa”, uno dei nomi antichi in cui fu chiamata, non è mai qualcosa di definitivo, ma semplice passaggio necessario per accedere a una esistenza spirituale diversa. Quando i nostri cari muoiono e divengono antenati non abbandonano la terra ma vivono nel Tempo del Sogno e lo condividono con le pietre e le piante: un tempo non lineare compreso solo da una figura mitica in a Sardegna, le Janas, antiche sacerdotesse custodi del mondo sottile, che ci aprono le porte di accesso.  

L’antropologia ci racconta qualcosa di molto illuminante sul concetto antenati, ovvero che ha depositato nella testa degli uomini e donne di tutto il pianeta delle immagini condivise. È utile riconoscerle per poter entrare in contatto e iniziare a ri-dialogare con il nostro subinconscio, con la parte più antica e profonda di noi stessi. Prima immagine: gli antenati ci aiutano a ritrovare la strada e realizzare il nostro obiettivo più grande, il motivo per cui siamo nati; aiutandoci a realizzare il nostro obiettivo, essi stessi si realizzano. Questo scopo è un po’ quello che Aristotele ha definito entelechia (en=dentro e telos=scopo), la capacità di crescere nel potenziale che abbiamo dentro di noi. È un po’ come la nostra forza vitale, il principio creativo attraverso il quale troviamo la nostra più elevata realizzazione e raggiungere il nostro pieno potenziale, la finalità interiore. Se hai dentro il seme del ginepro, per usare una qualche metafora, sei libero dai condizionamenti e col tempo, con la consapevolezza sarai capace di vedere perché e come piegarti al vento, invece di resistere irosamente alle cose che la vita soffia verso di te.  

La tradizione ci racconta che quando gli antenati vogliono comunicare con noi, lo fanno tramite i sogni, richiamandoci, dandoci informazioni, aiutandoci a porci le giuste domande che ci permettono di ricongiungere quei sentieri necessari alla nostra realizzazione. La seconda immagine è questa: gli antenati sono il nostro tramite con la natura. Se vogliamo avere un buon rapporto con la natura dobbiamo necessariamente avere un buon rapporto con gli antenati. In Sardegna il grano viene piantato in novembre, il mese nel quale, per tradizione, tornano gli antenati. Si riteneva, infatti, che gli antenati potessero influire sulla germinazione del grano: influiranno positivamente se durante tutto l’anno sono stati celebrati e ricordati a dovere. Grano e antenati condividono l’elemento terra, piante ed antenati condividono, come già accennato, il tempo del Sogno. Tutti i frutti e semi, impiegati e donati durante la celebrazione della festa dedicata alle anime in Sardegna ( Sas Animas, Is Animeddas, Su Mortu Mortu, Su Prugadoriu, Is Animas, sono solo alcune delle sue diverse accezioni), racchiudono significati e simbolismi peculiari. 

Nelle piccole comunità agro-pastorali la morte era una presenza naturale e il suo giungere inatteso veniva esorcizzato con riti collettivi, presagi e segni premonitori che si pensava ne annunciassero l’imminente comparsa: animali capaci di “leare su fragu ‘e sa Morte” (sentire l’odore della morte); il cigolio terrificante del carro dei morti; la figura leggendaria dell’Erkitu e del suo muggito portatore di morte; le danze off-limit del corteo dei morti, chiamato in alcuni paesi “Sa Reula”. E tante altre. Ma questo è un altro racconto che approfondiremo altrove.  

I DONI PER LE ANIME: COSA ANCORA CI POSSONO INSEGNARE      

In questa occasione speciale le vie di ogni paese brulicavano di bambini coperti di stracci, alcuni avevano il volto annerito da carbone, altri, con fare timido spingevano in avanti l’amico più ardito. Bussavano alle porte delle case porgendo un sacco e intonando un ”seus benius po is animeddas” (sono venuto per chiedere un’offerta per le anime) oppure un “seu su mortu mortu, carki cosa po sas ànimas” (sono il morto-morto, chiedo qualche cosa per le anime). Ed ecco che il bottino di queste piccole anime si arricchiva via via di frutta secca, mela cotogna, melograno e dolci tradizionali.  

In Ogliastra, ad Urzulei, dove sono nata, primo fra tutti, “sa panischedda”: un dolce scrigno di pane che racchiude miele, “abba ‘e mele”, saba, finocchietto selvatico, uva passa, noci, mandorle e aromi vari, a seconda della ricetta segreta di famiglia. Quel che è certa è la sua non facile preparazione, fatta di cura e lunga fermentazione. La chiave di violino per una sua perfetta esecuzione è la massima attenzione e la scelta del luogo caldo che permetta la giusta fermentazione. Un tempo una vecchia “tiaggia de lana” (tovaglia di lana) avvolgeva i tempi di attesa di questa lunga preparazione. Chi ha vissuto da bambini quei momenti sa bene cosa quel pezzo di stoffa, impregnato di ricordo e di profumi del pane appena sfornato, sia capace di evocare.   

In questi ultimi anni, lunga è stata la lotta contro la moderna produzione industriale che ha fatto perdere ai più gli innumerevoli richiami legati ai rituali del dono e della forza simbolica racchiusa nella “S’Abba ‘e Mele” (Acqua di miele), ingrediente principe presente nelle ricette più antiche. Il sapore di questa meraviglia, prodotta dal recupero della “spremitura” del miele raccolto, o meglio “tagliato”, è intriso dell’antica tradizione contadina del “non si butta mai nulla” e del “sfrutta tutte le risorse che ci regala la natura”. Per non parlare del prezioso valore simbolico che racchiude: il dare nuova vita alle cose che sembrano avere una fine.  

Perché il miele veniva tagliato? Sino a 50 anni fa e prima dell’introduzione dei moderni alveari gli sciami di api erano tenuti su di un tronco cavo di sughero, il cosiddetto “bugno rustico”. Il favo contenente il miele era un tutt’uno con il nido e solo una serie di legni a croce, posti all’interno del bugno, manteneva l’ordine dei favi. Per poter raccogliere il miele era però necessaria un po’ di forza bruta: con le mani oppure, più efficacemente, con l’utilizzo di una lama adatta si tagliare la parte superiore e ricca di miele.  

La sapa veniva prodotta anche dal mosto d’uva: prima che fermenti è fatto bollire a fuoco lento per oltre dodici ore in un tino di rame con all’interno dei malli di noce, utilizzati per non far attaccare la massa del composto alle pareti. In base al territorio si utilizzano uve differenti e si riscontrano aggiunte quali mela cotogna o altro per aromatizzare il concentrato.  

Altri protagonisti della festa sono i “pabassinas”, i papassini, dolci beneauguranti usati anticamente come dono nei tipici periodi di “passaggio”, legati alla liturgia agraria. Molti non si soffermano più a pensare alla funzione simbolica racchiusa in questi dolci, dimenticandosi che il cibo è sopratutto unione, nutrimento concreto e simbolico. Non c’è dolce o alimento che non affondi le radici nelle pieghe del vissuto. Ed è proprio qui che inizia il bello, seguirne le trame per avventurarsi in un viaggio unico di scoperta. Attraverso il cibo l’uomo esprime emozioni, stati d’animo, sancisce legami e celebra piccoli e grandi momenti del suo percorso terreno. Un percorso che prosegue anche dopo la morte. Il cibo infatti assume un ruolo importante nel culto dei morti: per commemorarli, consentirne il trapasso e migliorarne la vita terrena. Vediamo un po’ di soffermarci su alcuni di questi.  

Partiamo dalle zucche e dal mettere in chiaro una cosa: le zucche intagliate per Halloween (forma contratta di “All Hallows Eve”, dove Hallow è la parola arcaica inglese che significa “santo”: la vigilia di tutti i santi, quindi. Festa odierna e commerciale che ha richiami però profondi nelle antiche feste pagane legate al Samhain) hanno radici profonde che accomunano tutti i popoli. Tu che denigri tanto la forzatura di una festa così “lontana” dalle tue origini, prova a grattare via la superficie commerciale e spolvera dai detriti il messaggio nascosto nella sabbia apparente delle convinzioni. Sfatiamo alcune dicerie. Prima di tutto, anche qui in Sardegna venivano eccome intagliate le zucche; prova ne è “sa conca ‘e mortu” preparata anticamente in questo periodo per far scherzi, spaventare i bambini e tenere lontano “sas animas malas”, le anime cattive. Non a caso venivano utilizzate le zucche, simbolo di resurrezione, eccellenti viatici per rinascere, per salire al cielo. 

Passiamo alle noci, castagne, mele cotogne, melograno che venivano offerti ai morti e riempivano il bottino dei bambini assieme ai dolci tradizionali del periodo che abbiamo già visto. Si pensava che ricevere in dono un sacchetto o una manciata di noci potesse favorire la realizzazione dei propri desideri. Simbolo di fortuna, Il frutto evoca il ternario sacro che presiede ad ogni manifestazione: corpo (guscio) spirito (la pellicola intorno al guscio o mallo), e anima (la polpa, il ghermiglio). L’albero del noce è da sempre stato considerato un albero divino, mezzo di interconnessione tra la superficie della terra, il sottosuolo e il cielo.  

Le castagne, dall’alto valore nutritivo conosciuto fin dall’antichità. Grazie alla farina che se ne ricavava, entrarono nel patrimonio alimentare del popolo come elemento integrativo o sostitutivo del grano nei periodi di carestia. Dal medioevo sono state considerate anche cibo dei morti, assieme a fave, ceci e fagioli, a seconda del retaggio delle precedenti tradizioni dei popoli. Per gli antichi romani erano, per esempio le fave. Per gli antichi sardi, forse le ghiande, se pensiamo ai richiami del “pane cun lande” rispolverato nei tempi di carestia ed echi di antichi cerimoniali di un pane consacrato agli antenati fatto con ghiande e argilla rossa. Per quanto concerne le castagne come cibo dei morti, venivano consumate e offerte un po’ in tutta Italia e non solo. In Francia, nella Vienne, durante la notte delle anime che precede la celebrazione dei defunti, ci si riuniva nei castagneti per cuocervi le castagne. Non sarebbe male seminare pure qui questa tradizione, eh?! 

La mela cotogna, un frutto straordinario che vanta un passato leggendario e subisce un presente di gran lunga meno interessante. Non essendo amante dei sapori aciduli e della frutta cotta, confesso che pure io tendo a non mantenerne vivo l’utilizzo. Simbolo di buon auspicio. Era uno dei frutti autunnali più impiegati, da profumatore per armadi a ingrediente per decotti curativi e preparazioni culinarie come cotognate. Un toccasana e rimedio naturale da avere sempre in casa, grazie alle sue proprietà toniche, astringenti ed antinfiammatorie dell’apparato digerente: il suo succo contro disturbi intestinali; preso decotto con aggiunta di miele contro tosse e mal di gola; usato nella preparazione di composte assieme ad altri frutti come addensante naturale capace di donare la giusta consistenza a confetture e marmellate. L’elevata concentrazione di sali minerali e vitamine, insieme al limitato apporto calorico lo rendono un alimento consigliato per chi soffre di diabete.  

Passiamo alla melagrana, ecco questa sì che rientra a pieno nella mia Top Five dei frutti preferiti:  feconda e regale, una volta matura si apre in un sorriso ricco di granì gustosi. Gli innumerevoli arilli rossi, succosi e carichi di vitamine e proprietà benevole, evocavano fecondità e abbondanza. Elisir di lunga vita e simbolo di eterno ritorno. In tutti i miti il melograno spunta dal sangue di un qualche essere mitico e genera un nuovo essere. Nella tradizione mediterranea precristiana fu il simbolo del rinnovarsi del cosmo, della sua perenne rigenerazione a opera della Grande Madre che nel ciclo eterno di vita-morte-vita genera, riprende in sé e rigenera. Per chi vorrà gustarne chicche e curiosità c’è un articolo dedicato in cui racconto un po’ di miti, storie e madonne del melograno! 

Come abbiamo visto ed intuito, questo particolare periodo dell’anno dona occasioni preziose, come quella, nascosta e tramandata con saggezza, di guardarsi dentro, sanare le ferite del passato e guardare la vita che verrà. Potremo prendere spunto dalla natura che si ritira in se stessa per inquadrare meglio ciò che stiamo vivendo anche noi. Nel calendario agricolo questo periodo è chiamato, infatti, della semina: sulla terra sembra regnare la morte mentre al di sotto la vita è in pieno fermento.  

Ora abbiamo la possibilità di seguire l’esempio della semina e raccoglierci in noi stessa, di aprirci a quello che, per tradizione, è il momento della riflessione.  

Prendiamoci del tempo per passeggiare in natura tra i colori autunnali e respirare i profumi curativi di questa stagione. Prestiamo attenzione ai sottili mutamenti che avvengo attorno a noi e nel nostro corpo, all’adattamento biopsichico del nostro organismo ai tiepidi, brevi e pungenti giorni autunnali. Ci accorgiamo che il richiamo a copertine, tisane e cioccolate calde, comodi focolari in cui deliziarci tra dolci pause si fanno via via più insistenti; la mente inizia infatti a scivolare in maniera naturale dall’esteriorità all’interiorità. È tempo di tepore e di riflessione, di scoprire quali aspetti di noi stessi necessitano di essere cambiati prima che possa iniziare un nuovo ciclo di vita. 

Una nuova semina, insomma. Di cosa? Bè, iniziamo con qualcosa di semplice come scegliere cose e situazioni da lasciar andare e nuovi desideri da cullare e da far germogliare. Proviamo a fare un gioco, in questa notte di passaggio dedicate un attimo a voi stessi. Preparate una tavola imbandita con dolci e frutta di stagione. Mettetevi comodi, prendete un foglio di carta, una penna, una mela e due candele. Una tenetela accesa, servirà a illuminare la ricerca. Piegate il foglio a metà. Visualizzate una spirale interiore 🌀che partendo dall’anno vecchio arriva al vostro centro interiore, qui incontra emozioni, erbacce, sogni da sradicare e semi di desideri da realizzare. A questo punto ripercorrete la spirale in senso contrario, dall’interno verso l’esterno portando fuori il vostro potenziale di vita e creatività che volete rendere manifesto durante il nuovo anno alle porte. È importare conservare sempre la saggezza imparata nel passato, è presente in qualsiasi situazione, imparate ad estrapolarla da qualsiasi dolore che volete cancellare dalla vostra vita. Ora, se volete, nella parte sinistra del foglio scrivete tutto ciò di cui volete liberarvi e lasciare andare di questo anno trascorso (niente vieta di aggiungere cose del passato che non avete ancora sradicato!); nella parte destra scrivete, invece, i vostri desideri e le emozioni che volete sperimentare lungo le strade da percorrere per realizzarli. Ora potete chiudere il foglio e ripiegarlo in quattro, metterlo dentro una mela recisa, fare un buco nel giardino, o in un terreno o in un vaso pieno di terra, e sotterrare fisicamente la mela. Poi prendete la candela con la fiamma già accesa prima e alimentate con questa quella nuova spegnendo poi, ad accensione avvenuta, quella precedente. Adesso che la semina è fatta, potete tornare e gustare quel delizioso banchetto, i cui aromi e profumi solleticavano l’attesa. Un bel rito d’autunno, non trovate? Non so voi, ma io, nonostante gli anni suonati che avanzano, voglio ancora scorgere più occasioni possibili; e quando arriveranno convincere la mia ragione a non opporre resistenza, a farsi avanti e afferrarle con coraggio. 

Quel che ho imparato dai doni della festa delle anime è che la vita è sempre in fermento, ci offre molteplici occasioni per accorgerci che nel nostro cuore c’è sempre quel qualcosa in più che, per ora, fatichiamo a scorgere e voler diventare. Dalle piante ho imparato l’importanza del lasciar andare ciò che non è più funzionale a noi stessi; che il cambiamento è inevitabile, costante e periodico, e che la crescita personale è una scelta; che al seme che germina sotto terra è necessario il buio, così come per qualsiasi processo creativo. Ho sperimentato che c’è sempre la possibilità di potare rami secchi, infruttuosi, e proiettare nuovi spiragli. Non importa dove decidiate di stare in questi giorni così speciali, tra le calde mura domestiche, immersi nelle vibrazioni positive della natura. Permettetevi, sempre, di sperimentare e vivere tutte quelle esperienze che nutrono anima, corpo e mente. Mettete caso che lungo il cammino, possiate cambiar strada e imbattervi, finalmente, nel sentiero a cui aspirate per davvero! 

Buona semina a tutti!  

Manuela Sanna 

FILOS, Racconti di Viaggio di Manuela Sanna. Tutti i diritti riservati © 

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